La sua mostra fotografica, Workforce, si inaugura il 30 ottobre presso l’Istituto italiano di Cultura a Valletta. Il nostro Carlo Campione ha raggiunto il fotografo Michele Borzoni per scambiare quattro chiacchiere sul sul lavoro.
Ti sei diplomato presso l’International Center of Photography a New York, e hai vinto molti premi in poco tempo come lo Yann Geffroy Award 2007, con il lavoro Srebrenica, sete di giustizia, o nel 2010 il Primo premio categoria People del prestigioso World Press Photo Award. Infine sei stato selezionato da Photo District News fra i 30 new and emerging photographers to watch. Le tue foto sono apparse su giornali di fama internazionale come «Newsweek», «Vanity Fair» e «L’espresso», solo per citarne alcuni. Come hai raggiunto questi traguardi in così poco tempo?
Come hai detto mi sono diplomato nel 2006 e poi ho cercato subito di lavorare per il mercato editoriale, quindi per riviste e settimanali sia in Italia che all’estero, proponendo delle storie, poi piano piano ho cominciato a collaborare con queste riviste vendendo dei reportage effettuati soprattutto fuori dall’Italia. Ad un certo punto ho iniziato una carriera più approfondita con un progetto in Kashmir, una zona contesa fra l’india ed il Pakistan, con quel reportage fotografico nel 2010 vinco il premio World Press Photo.
Quello che ho sempre cercato di fare è proseguire una ricerca personale piuttosto che lavorare sempre su commissione per i giornali o le riviste. Un conto è lavorare ad un progetto a cui tu tieni, un altro è fornire delle foto che servono ad altri.
Le tue foto sono state esposte sia in mostre personali che collettive in tutto il mondo: da New York a Pechino, da Yerevan a Madrid, e presso musei importanti come il Maxxi di Roma o l’Institute du Monde Arabe a Parigi. Le tue immagini descrivono la vita degli uomini in parti del mondo lontane tra loro, che hanno in comune la voglia di sopravvivere nonostante la guerra: parlami della tua esperienza presso le ultime comunità cristiane in zone difficili perché a maggioranza musulmana, come la Turchia o la Siria, e della guerra ormai infinita nel Kashmir che ha ripreso vigore dopo i fatti del 1989.
Il progetto sui cristiani in Medio Oriente è l’ultimo mio progetto a lungo termine, durato più di tre anni. Ho viaggiato in tutto il Medio Oriente, dalla Turchia fino all’Egitto cercando le ultime comunità rimaste in una terra dove cristianesimo è nato. Tutto prende vita dalla voglia di parlare di un territorio sempre raccontato dal punto di vista della maggioranza, quindi dei musulmani, dei conflitti tra Sciiti e Sunniti, io invece ho pensato che fosse interessante andare a ricercare quelle ultime comunità rimaste, in un momento in cui una parte dell’Islam è diventata particolarmente intransigente verso le altre minoranze religiose, soprattutto quando i vari dittatori del Medio Oriente hanno cominciato a cadere, a partire da Saddam Hussein, questo perché molti cristiani in quei paesi sono stati lealisti nei confronti dei vari dittatori.
L’altro è un progetto che nasce un po’ come come uno spin-off del precedente, che racconta anche lì di una una minoranza, questa volta musulmana, all’interno di uno Stato multiconfessionale come l’India. Il Kashmir è una piccola regione contesa tra l’India ed il Pakistan, dove negli ultimi quaranta anni si è vissuto questo conflitto infinito, che vede questo piccolo Paese come capro espiatorio fra due potenze nucleari.
In Workforce, la mostra che si inaugura oggi a Valletta, metti sotto una lente d’ingrandimento in maniera molto cruda alcuni settori del mondo del lavoro accusati di sfruttare il lavoratore, come i call center, la logistica, il tessile. Una catena di montaggio in perfetto stile Tempi Moderni di Chaplin, dove innumerevoli persone lavorano e persino vivono nei luoghi di lavoro: vedere nelle fabbriche giocattoli, biciclette e culle a pochi metri dalle macchine da cucire sono immagini che fanno davvero pensare.
Tutto nasce dopo aver passato molti anni raccontando storie diciamo più esotiche, ho pensato fosse importante dedicarmi un po’ a delle storie importanti dell’Italia, le prime che ho fatto erano quelle sulle aste fallimentari e sui concorsi pubblici proprio perché volevo cercare di raccontare come l’Italia fosse stata colpita dalla crisi economica, da lì in poi ho cercato di approfondire alcuni temi molto importanti dell’economia del lavoro, e che sono stati scelti non perché hanno la pretesa di essere una sorta di Atlante o di antologia di un possibile scenario del lavoro in Italia.
Sono alcune serie che hanno a che fare con due fattori principali, il primo è quello di potersi riconoscere in queste realtà, ognuno di noi acquista ad esempio delle arance, dei vestiti alla moda ad un certo prezzo, oppure compra on-line, per me era importante che ci fosse una relazione ben stretta fra chi guarda le immagini e le storie tema del mio lavoro; il secondo è che le foto hanno questo linguaggio fotografico molto seriale, quasi ripetitivo, nelle inquadrature rispetto sempre una certa distanza, una certa altezza, i concetti che voglio infatti esprimere sono principalmente due, uno è legato a questi vuoti di posti di lavoro, grandi ambienti di lavoro dove non ci sono più più gli operai perché sostituiti dalle macchine, o depositi che immagazzinano la merce prodotta in Asia, all’opposto luoghi con folle di persone che riempiono grandi palazzetti, una miriade di lavoratori che hanno perso la propria identità.
Negli ultimi quindici anni abbiamo visto una rivoluzione nel mondo della fotografia, smartphone che sono ormai macchine fotografiche sofisticatissime, con ottiche di alta qualità se paragonate ad apparecchi fotografici vecchi solo di qualche anno, come vedi questo esercito di “fotografi” che pubblicano milioni di foto sul web in poco tempo?
È vero la fotografia è diventata estremamente accessibile a molte persone rispetto a qualche anno fa, proprio perché con l’utilizzo di queste macchine fotografiche digitali e smartphone tutto è diventato più facile, quindi di conseguenza tantissime persone sono in grado di fare delle belle foto.
Secondo me però il punto non è più se fare belle o brutte foto, il punto secondo me è avere delle idee interessanti ed intelligenti, e cercare di mettere insieme a una serie di foto che comunicano qualcosa, non semplicemente un tramonto, un bel colore, o un selfie, quelle sono secondo me semplicemente delle immagini che possono piacere ad alcuni e ad altri no, l’importante sono le idee che stanno dietro le foto, questa è forse una cosa ancora difficile da far capire.
Di contro tutta questa estrema facilità nell’accesso alle foto, alla produzione d’immagini ha fatto forse un po’ capire la potenzialità di quello strumento, perché alla fine è un mezzo di comunicazione che ha un linguaggio universale, se nella parola bisogna parlare la stessa lingua nelle immagini no.
Bisogna saper parlare con il linguaggio fotografico, un conto è saper fare una bella foto, un conto è avere delle belle idee che vengono trasmesse con questo mezzo di comunicazione.