All’anniversario della morte di San Giovanni Paolo II, avvenuta il 2 aprile del 2005, in concomitanza, diciassette anni dopo, con l’arrivo di Papa Francesco sull’arcipelago maltese, ci perviene la testimonianza di chi ha vissuto da vicino non solo il Pontefice, ma anche l’uomo, Karol Józef Wojtyła, ed ha voluto ricordarlo attraverso un pensiero intimo e personale, condividendolo con i lettori del Corriere di Malta.
Ricordo di una delle più grandi figure di questo secolo per la sua capacità di capire il mondo e i suoi bisogni
C’è una poesia scritta dal poeta polacco Juliusz Slowacki nel 1848, l’anno dei moti liberali che sconvolsero l’Europa, la cui misteriosa visione, una folgorante profezia di un “Papa slavo”, “faro dei fedeli”, “guida del popolo”, ben centotrentatrè anni dopo, divenne a tutti gli effetti realtà.
Il più lungo Pontificato del secolo ed il secondo della storia della Chiesa. Solo Pio IX è durato più di lui, 32 anni (1846-1878). E pensare che secondo San Malachia, nelle sue “Profezie sui Papi”, pubblicato nel 1595, Giovanni Paolo II, sarebbe stato il terz’ultimo dei Papi. Fantasticherie? Chissà.
Ma prendendo tutto ciò per un semplice “divertissement”, mi piace ricordare, invece, quel 16 ottobre del 1978, alle ore 18:45, quando il Cardinale Felici affacciatosi dal balcone della Basilica di San Pietro, annunciava alla piazza gremita di gente e al mondo intero chi era il Papa eletto.
Ricordo il momento di incertezza, di sconcerto, che si protrasse per quel nome non atteso. Nessuno l’aveva previsto: un Papa non italiano dopo 456 anni (nel 1522 l’ultimo era stato il fiammingo Adriano VI). E nessuno poteva prevedere che quel Papa straniero avrebbe cambiato il mondo e la Chiesa.
L’uomo, il viaggiatore, il mistico, il pastore, il politico, assorto nella meditazione, sovente rapito nella preghiera, immerso nella sofferenza: un gigante dei nostri tempi.
Oggi, più che mai, ci sarebbe ancora bisogno di lui, di un Papa che è entrato nella storia con la violenza dolcissima di una speranza e che ha lacerato inutili e dannosi compromessi. I suoi passi avevano preso la direzione del mondo: il continuo spostarsi è stato l’aspetto più vistoso e originale del Pontificato di Wojtyla, incurante dei pericoli dei Paesi in guerra, andava anche dove non lo volevano. Nei suoi viaggi Egli realizzava il “ministero petrino” come amava dire, ma esprimeva anche la sua vitalità, il gusto di muoversi, di vedere il mondo e i popoli.
«Cristo non ci ha detto “sedete in Vaticano”, ma ci ha detto: “Andate in tutto il mondo”»: così Giovanni Paolo II una volta aveva difeso “l’eccesso” dei suoi viaggi.
Quell’immagine del Papa, divenuta stanca, col parlare affaticato, mi è rimasta negli occhi e nel cuore ancora oggi. Forse da quel Pontefice, gli uomini che si avvicinano al terzo millennio, hanno chiesto più di quanto non abbiano chiesto in altri tempi. Oggi a ricordarlo sofferente è difficile pensare a colui che ha cambiato il mondo segnando la fine dei regimi dell’Est e con essi anche la caduta del muro di Berlino; a colui che ha combattuto il capitalismo selvaggio e il consumismo con la conseguente perdita dei valori umani; a colui che ha sospinto verso Dio una umanità dissacrata.
Così era iniziato il nuovo corso del mondo, fino a quando, il 13 maggio 1981, un killer turco tenta di fermare il Papa e la sua missione.
Il mondo lo ha applaudito, la gente si entusiasmava, i capi di governo facevano a gara per poter essere ricevuti. Tutti lo volevano. È stato l’uomo che ha conosciuto il soffrire e ha sofferto per l’intera umanità, divenendo il simbolo vivente del Redentore del mondo.
Con l’arma della parola, Giovanni Paolo II, ha sempre lottato sin da giovane contro ogni ingiustizia, come quella portata dai regimi antidemocratici e dal totalitarismo, prima nazista e poi comunista. Ma sono rimasti sordi alla predicazione di Wojtyla e allo sconvolgimento epocale Cuba, Corea del Nord e Cina. Anche se devo dire che, in questi Paesi, nonostante tutto, qualcosina aveva smosso. Ma Giovanni Paolo II non aveva ancora concluso la sua predicazione perché Mosca e Pechino avevano continuato a tenergli la porta chiusa. Putin avrebbe voluto accoglierlo, ma la Chiesa Ortodossa russa non gradiva l’opera di proselitismo del Pontefice e ostacolava la visita. La Cina, fermava il Papa che aveva percorso ogni contrada del mondo. La sua parola non era riuscita a varcare la Grande Muraglia.
Nelle sue parole, si profilava una nuova battaglia, quella contro il capitalismo ed il consumismo del mondo occidentale, al fine di poter recuperare i valori dell’uomo.
Tutti ci chiedevamo se Wojtyla fosse stato un Papa politico. E se così fosse stato, esisteva una sua politica? Personalmente, non penso che si poteva definire “Papa politico”, nel significato stretto del termine, ma certo è che consapevole dei problemi che portava e porta a questa configurazione del mondo, egli sapeva muoversi con l’avveduta prudenza e diplomazia anche nelle condizioni più difficili. Penso che una risposta la si possa trovare tra le righe del seguente passo tratto dalla sua enciclica Centesimus Annus: «Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un’organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza e la menzogna, per realizzarla».
Oggi più che mai il messaggio di Giovanni Paolo II indica nella civiltà dell’amore, la strada da seguire, contrapposta alla violenza, al sopruso, al potere sia delle armi che economico, che mortificano la natura dell’uomo.
Certo è che in ogni angolo della Terra che Papa Wojtyla ha toccato è avvenuto il miracolo di un cambiamento.
Ho letto, nel libro di Claudio Chelli, che fu Ambasciatore d’Italia presso il Vaticano, un brano nel quale parla del suo ricordo di Giovanni Paolo II. Ho estratto uno stralcio molto significativo, una conferma di quanto finora detto: «Tra le molte ragioni lo ammiravo, perché ha sempre saputo resistere alle tentazioni umane della demagogia, se pure ne ha avuta una. Quella demagogia che spesso induce uomini politici anche di primo piano, e altri personaggi importanti, a deplorevoli concessioni. Questo Papa, che io sappia, non ha evitato di dire cose anche dure e sgradevoli quando ha ritenuto giusto dirle pubblicamente. Il suo insegnamento è racchiuso in una frase. “Costruire la civiltà della pace, della verità e dell’amore”». Una frase che potrebbe essere la bandiera dell’ecumenismo; e non solo. Una guida per ogni uomo: un sogno che forse un giorno, se ognuno di noi farà la propria parte, si potrà anche avverare.
Non possiamo essere così scettici da pensare che una vera civiltà della pace tra gli uomini sia solo una mera utopia e non si potrà mai raggiungere. Anche se noi non faremo in tempo a vederla realizzata; almeno da questa terra.
Papa Wojtyla, il guerriero della pace, il profeta a volte dal tono apocalittico. Nessuno, alla sua elezione, poteva prevedere che il suo pontificato avrebbe cambiato il mondo della Chiesa. È stato definito un Papa aitante, un Papa atleta, un Papa umano, un Papa sofferente. La sofferenza è stato l’ultimo segno distintivo che gli era rimasto, nel suo andare dolorante: non camminava quasi più, il suo parlare divenuto affaticato, vederlo così ci era impossibile pensare a Colui che aveva cambiato il mondo.
Verso la fine dei suoi giorni, era ormai molto stanco. Ma, anche se il suo passo era strisciante, anche se la sua mano era tremula, anche se la sua voce era incomprensibile, conservava intatto il vigore spirituale dei primi giorni.
Andava comunque avanti, con in mano il pastorale, ha fatto della sua sofferenza il terreno fertile su cui ha fatto germogliare la Chiesa del terzo Millennio, come egli stesso ci ripeteva: «Spalancate le porte a Cristo».
V.P.B.