L’attività delle cosiddette «Ghost Bank» getta ombre sul sistema bancario e sulla reputazione di Malta. Ma chi dovrebbe intervenire? Lo abbiamo chiesto agli organi finanziari maltesi, MFSA e FIAU.
Il fenomeno è venuto alla luce ma nessuno si è fatto avanti per proporre una soluzione. Quelle che vengono descritte ghost bank (banche fantasma) in un rapporto di Transparency international potrebbero avere scelto di aprire filiali o succursali in posti come Malta per evadere il fisco nel proprio Paese, come ha scritto il Corriere di Malta lo scorso 6 novembre. Ma chi dovrebbe vigilare per verificare che l’ipotesi avanzata sia infondata o, in caso contrario, intervenire per impedire questo comportamento?
La prima cosa da capire è se la responsabilità sia del Paese nel quale ha sede il quartier generale della banca in questione, per esempio l’Italia o la Germania, o se invece, ricada sulle autorità del Paese nel quale si trova la sede periferica, come potrebbe essere Malta o un’altra giurisdizione in cui il Fisco è meno esoso.
In quest’ultimo caso, le autorità maltesi che vigilano su tutte le istituzioni finanziarie sono la Fiau, che effettua controlli e indaga per individuare eventuali reati di riciclaggio o finanziamento al terrorismo, e la Mfsa, che avrà prima rilasciato la licenza a operare.
Entrambe sono state interpellate dal Corriere di Malta.
“Nonostante sia preoccupata per questo fenomeno delle cosiddette ghost bank” dicono alla Fiau “vista l’attuale legislazione, queste banche non ricadono sotto la responsabilità di supervisione di Fiau. Perché, secondo il Banking act, può esercitare un’attività finanziaria solo chi possiede una licenza della Mfsa. E questa licenza è necessaria anche per una banca straniera che voglia aprire a Malta una filiale, un ufficio di rappresentanza o una sussidiaria. Fermo restando che una banca autorizzata in un qualsiasi Stato membro dell’Ue o dell’Eea (European economic area) è autorizzata a esercitare in tutti gli altri Stati, secondo la norma che sancisce la libertà di servizi”.
Nella nota dell’intelligence finanziaria è specificato pure che le indagini e il controllo per individuare eventuali attività di riciclaggio seguono il principio di valutazione del rischio. Quindi, questa struttura investigativa non ha considerato la situazione particolarmente rischiosa.
E la Mfsa?
“Tutte le transazioni transfrontaliere sono soggette, a Malta, alla regolamentazione per i bonifici europei” hanno risposto al nostro giornale “e quegli standard sono rispettati con severità. E sono applicate anche le best practice definite dalla Fatf (Financial action task force, nota in Italia come Gruppo di azione finanziaria internazionale ndr.)”.
Ma poi aggiunge che la loro attività di supervisione è coperta da riservatezza e, solo nel caso che si individuassero elementi che comportano dei provvedimenti, queste informazioni verrebbero pubblicate sul sito istituzionale, nella sezione riservata Misure e sanzioni amministrative.
E in quella sezione non c’è alcun riferimento all’attività delle filiali segnalate dal rapporto di Transparency international.
Certo, l’interesse di Malta in questo momento sarebbe quello di cancellare tutte le ombre sulla sua reputazione soprattutto in ambito finanziario. Ma se alcune banche approfittano del cosiddetto dumping fiscale per evadere il fisco in patria, i primi a essere danneggiati sono proprio i Paesi di provenienza di quelle banche.
A questo punto nasce un’altro quesito: è lecito alle autorità di un altro Paese dell’Ue venire a Malta per investigare sulle transazioni di un proprio istituto di credito? Oppure si sentirebbero dire che non possono operare fuori della loro giurisdizione?
Secondo gli esperti italiani, non è affatto semplice perché manca un coordinamento tra la Bce e le autorità fiscali dei vari Paesi membri. Ma una spiegazione più tecnica arriva da chi si occupa di antiriciclaggio come investigatore. E che per questo preferisce non essere citato.
“Il problema è la mancata applicazione di una direttiva europea (la IV direttiva) che impone a qualunque istituzione finanziaria di organizzare un “punto di contatto centrale” in qualunque sede estera dove lavori almeno una persona. Sarebbe il riferimento per le autorità locali antiriciclaggio che potrebbero così verificare tutta l’attività che si svolge in quella sede, comprese le singole transazioni. Ma nonostante sia stata emanata nel frattempo anche la V direttiva, questo aspetto della IV non è stato ancora implementato”.
In definitiva, i dubbi avanzati dal rapporto di Transparency international potrebbero anche rivelarsi infondati e i movimenti di denaro sospetti essere, in realtà, motivati da operazioni finanziarie del tutto legittime e, soprattutto, condotte dall’inizio alla fine nelle giurisdizioni con tassazione favorevole. Ma al momento non c’è modo di dimostrarlo perché nessuno sembra avere la competenza per approfondire e fugare ogni sospetto. Oppure confermarlo.