Antonio Varriale è nato a Salerno e ha studiato a Torino. Adesso vive e lavora tra Malta e Singapore. Il gruppo di cui è cofondatore ha meno di 30 impiegati e sfiora picchi di 30 milioni di fatturato annuo: si chiama Blu5 e nasce a Singapore nel 2007. Antonio amministra il centro di ricerca e sviluppo di Blu5 che ha sede a Ta’ Xbiex.
Antonio che cosa fate? Sono andato sul vostro sito, non si capisce niente.
«Lavoriamo nel settore della sicurezza delle informazioni e delle telecomunicazioni. Realizziamo soluzioni integrate che si basano su hardware sicuri che disegniamo a Malta e produciamo a Taiwan».
Non capisco, hardware o software?
«In realtà entrambi. L’hardware può essere fonte di insicurezza come il software. Purtroppo non c’è ancora la giusta consapevolezza su questo aspetto, né a livello accademico né a livello industriale. Vedi il caso Huawei. Si ha paura che comprando gli apparati 5G di Huawei, gli Stati Uniti perdano il controllo delle infrastrutture di telecomunicazioni fornendo un vantaggio strategico alla Cina».
Andiamo per ordine, che cosa è 5G? Sarà una rivoluzione?
«È la nuova tecnologia di telefonia mobile. Benché molti pensino che si tratti dell’ennesimo aumento di banda per eseguire download sempre più rapidi, il più grande vantaggio del 5G è la possibilità di connettere contemporaneamente una miriade di dispositivi wireless. È il passaggio fondamentale per creare l’internet delle cose e lanciare servizi e prodotti di nuova generazione come, ad esempio, auto con guida autonoma realmente funzionanti perché, oltre ad essere equipaggiate di numerosi sensori, parleranno direttamente e si scambieranno informazioni con altre auto, con semafori, con telecamere, ecc. per capire in ogni istante quale sia la corretta decisione da prendere durante la guida».
Deduco che la sicurezza sarà cruciale?
«Esattamente. Oggi si possono rubare informazioni e denaro da telefoni, computer e server. Domani con l’infrastruttura 5G si potrà ottenere il controllo di una miriade di dispositivi connessi tra loro: auto, semafori, telecamere e tutta l’internet delle cose. La sicurezza sarà di vitale importanza».
A proposito di soldi, per tornare all’attualità maltese, che cosa è successo alla Bank of Valletta? Hanno rubato 12 milioni di euro aggirando la sicurezza informatica della banca. Sembra un furto informatico vecchio di 10-20 anni.
«Non ho informazioni per pronunciarmi. Ho il timore che ancora nessuno abbia capito fino in fondo come sia stato eseguito l’attacco. È un peccato che le nostre soluzioni, adottate in 16 Paesi a livello governativo e militare, non siano considerate a Malta. Ma il mercato locale non è facile, e non è una nostra priorità».
Mi sembra chiaro che voi potreste essere in ogni parte del mondo. Perché allora proprio Malta?
«Il centro di ricerca e sviluppo conta una dozzina di ingegneri che lavorano giorno e notte con grande passione per realizzare soluzioni davvero innovative. Le nostre menti sono sostanzialmente europee, maggiormente dall’Italia, Francia e Germania. Volevamo quindi che il centro di ricerca e sviluppo fosse di base in Europa. Per continuità linguistica e giurisdizionale con Singapore, che è regolato dal Common Law (sistema giuridico di tradizione britannica) ed in cui l’inglese è una lingua ufficiale, le scelte in Europa erano tre: Malta, Irlanda e Inghilterra. Malta ha l’euro e anche il sole. Inoltre non essendo un Paese NATO fornisce sostanzialmente una neutralità geopolitica, come accade per la Svizzera».
Com’è strutturata Blu5?
«Il gruppo Blu5 ha sede a Singapore, dove risiedono anche la società commerciale e la società che detiene tutte le proprietà intellettuali del gruppo. Mentre a Taiwan produciamo microchip e dispositivi che rappresentano il cuore dei sistemi di sicurezza Blu5».
Chi sono i tuoi clienti?
«Principalmente agenzie governative e grandi corporate. Collaboriamo anche con oltre 150 università. Realizziamo progetti open source sulle nostre tecnologie».
Quali sono i vostri mercati strategici?
«Il sud est asiatico rappresenta il 90% del nostro mercato. Lavoriamo molto in Indonesia. Ma in questo settore siamo solo un granello di sabbia. Oggi i Paesi che hanno grandi capacità tecnologiche sono molti. Stati Uniti e Cina sono sicuramente i più grandi esportatori di servizi e beni ad alto valore tecnologico. Negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno dominato il mercato, e nel campo governativo militare ancora oggi definiscono gli standard di sicurezza a livello quasi globale. Tuttavia la Cina ha smesso ormai da anni di copiare i prodotti ed è diventato un temibile rivale sia sul profilo tecnologico sia sul profilo economico. Nel caso di Huawei, ad esempio, la tecnologia cinese garantisce standard qualitativi elevatissimi ed è offerta a meno della metà del prezzo della concorrenza. A parte casi particolari, come Singapore, i Paesi del sud est asiatico non hanno grandi capacità e risorse per realizzare internamente soluzioni tecnologiche complesse. Molte tecnologie di sicurezza nazionale sono quindi acquistate da altri Paesi. Ma sappiamo bene che ogni volta che si compra tecnologia da un altro Paese si corre il rischio di essere dipendenti e, in casi estremi, di restare sotto la sfera di quella impresa o nazione».
E a questo punto entrate voi.
«Sì. Le nostre soluzioni hardware e software sono accompagnate da un forte trasferimento di conoscenza che, a lungo termine, permettono al cliente finale di avere il controllo completo del prodotto che hanno acquistato permettendogli di personalizzarlo e, al limite, di riprodurlo o addirittura migliorarlo. La nostra tecnologia astrae i concetti classici di crittografia, che matematicamente crea un labirinto o del “fumo” per rendere difficile l’accesso. L’approccio classico alla crittografia complica e a volte impedisce l’integrazione della sicurezza nei sistemi informatici. Noi cerchiamo di andare oltre, smaterializziamo il concetto di informazione fino a farla scomparire dai dispositivi che utilizziamo tutti i giorni, come il telefono ed il computer, che a quel punto potrebbero anche non essere più i nostri».
Non capisco, fammi un esempio.
«Ad esempio, uno dei prodotti che sta andando per la maggiore permette di creare un computer virtuale su una chiavetta basata sui nostri microchip che esegue un ambiente sicuro e protegge tutte le informazioni del cliente. Quando inseriamo la chiavetta in un qualsiasi computer abbiamo un nuovo computer: il nostro computer sicuro. Il nostro hardware adesso è utilizzato anche nei pico-satelliti».
Cosa sono i pico-satelliti?
«Sono dei satelliti in miniatura. Ormai con 32 piccoli satelliti si può “controllare” tutto il mondo, ad un ragionevole costo. La nostra tecnologia è sempre stata incentrata sulla sicurezza. Abbiamo sempre cercato di avere un hardware molto piccolo per motivi di sicurezza. In realtà la ridotta dimensione dei nostri prodotti si è rilevata importante per i pico-satelliti dove l’occupazione di spazio è un elemento fondamentale della progettazione».
Com’è lavorare in Indonesia?
«L’Indonesia è un Paese che si sta sviluppando ad una velocità impressionante. L’Indonesia è un paese molto ricco di risorse con più di 270 milioni di abitanti. C’è molta povertà, ma allo stesso tempo la mia sensazione è che tutti abbiano il minimo per vivere. C’è anche una redistribuzione informale della ricchezza che protegge un po’ tutti i cittadini».
Cosa pensi dei cinesi?
«Sono tanti. In un mondo dove l’accesso all’informazione è ormai molto più rapido e diffuso rispetto al passato, statisticamente il numero di talenti che si possono trovare in Cina è maggiore che negli altri Paesi. Hanno saputo premiare, investire e sfruttare questo talento e adesso sono ai vertici della tecnologia mondiale. Qualità comparabile con gli altri e prezzi nettamente più bassi».
In Cina non è possibile usare google e facebook. Secondo te è giusto?
«Non c’è dubbio che google e facebook eseguano una forte profilazione dei propri utenti, creando un gigantesco database di informazioni strategiche a scopo di marketing, e non solo. La Cina adotta una politica protezionistica cercando di sottrarsi alla profilazione».
E l’Europa?
«L’Europa rappresenta meno del 10% del nostro mercato. Come iniziativa europea, la General Data Protection Regulation credo sia un ottimo passo in avanti per prevenire invece che curare. Credo che questa regolamentazione sia un valido strumento per forzare le aziende a strutturarsi meglio dal punto di vista della sicurezza. Ha sicuramente creato consapevolezza sulle vulnerabilità e sui pericoli che tutti prima o poi ci troveremo ad affrontare: non si tratta di se, ma di quando».