Dopo quattro anni e mezzo appesi ad un limbo di incertezza, «il procuratore generale ha preso la peggior decisione possibile». Esordisce così l’intervento di Amnesty International sulla sentenza pronunciata oggi da Victoria Buttigieg che ha condannato per terrorismo i tre giovani africani meglio noti come “El Hiblu 3”, finiti al centro delle cronache per aver tentato di fermare il rientro in Libia della nave sulla quale viaggiavano.
«È una parodia della giustizia che questi giovani, che hanno agito da mediatori tra l’equipaggio (della nave mercantile che li aveva soccorsi, n.d.r.) e un gruppo di migranti in preda al panico, debbano ora affrontare un processo e un possibile carcere a vita» ha dichiarato Elisa De Pieri, ricercatore regionale di Amnesty International, attraverso un comunicato stampa diffuso oggi dall’Ente internazionale a difesa dei diritti umani.
«L’accusa non riconosce che facevano parte di un gruppo di oltre 100 richiedenti asilo che si trovavano ad affrontare un respingimento illegale verso la Libia che avrebbe messo a rischio la loro vita. Eppure, sono loro che ora potrebbero aver bisogno di difendersi da accuse che vanno da “atti di terrorismo” a “violenza”» continua De Pieri, sottolineando che le indagini che hanno portato ora a formulare i capi di accusa, sono stati segnati da «gravi irregolarità procedurali», tra cui la detenzione dei 3 giovani, allora minorenni, in strutture per adulti, il loro perseguimento nei tribunali per adulti e la mancata convocazione di testimoni chiave.
«Il caso contro El Hiblu 3 non avrebbe mai dovuto essere avviato, ma c’è ancora tempo perché le autorità maltesi ritirino le accuse e risparmino a questi giovani ulteriori ingiustizie» ha affermato l’esponente di Amnesty International.
La storia di “El Hiblu 3”
Era il 28 marzo 2019, quando Abdalla, Amara e Kader (soprannominati “El Hiblu 3”), tre adolescenti provenienti dalla Costa d’Avorio e dalla Guinea che ai tempi avevano solo 15, 16 e 19 anni, misero piede per la prima volta a Malta, ignari delle nove accuse preliminari che avrebbero dovuto affrontare – tra le quali dirottamento di una nave, sequestro e terrorismo -, impedendogli di vivere una vita dignitosa e libera.
“El Hiblu” è il nome della nave mercantile che quattro anni fa trasse in salvo una carretta del mare alla deriva nel Mediterraneo, che stava tentando di fuggire dalla Libia per raggiungere l’Europa, carica di 108 migranti ricchi di speranza, tra i quali anche i tre giovani. Speranza svanita una volta realizzato che il capitano stava rientrando al porto di partenza, innescando il panico generale tra i presenti al pensiero di dover fronteggiare ancora torture e miseria. La mossa sarebbe inoltre in violazione dei diritti internazionali, poiché i capitani hanno il dovere legale di portare coloro che salvano in mare verso una destinazione sicura.
Solo l’intervento di Abdalla, Amara e Kader permise alla nave di raggiungere Malta, dopo aver fatto da interpreti e mediatori tra gli altri migranti ed il capitano, essendo gli unici a parlare inglese.
Una volta messo però piede sull’arcipelago, gli “El Hiblu 3” sono stati arrestati dalle autorità maltesi e, malgrado le testimonianze raccolte in tribunale abbiano confermato come stessero solo tentando di fare da mediatori placando le tensioni sulla nave, i giovani sono finiti in un limbo giudiziario che li ha portati a fronteggiare nove capi d’accusa pesantissimi, quattro dei quali prevedono l’ergastolo.
Campagna per la liberazione di “El Hiblu 3”
In un comunicato stampa diffuso a seguito della sentenza, la campagna “Free El Hiblu 3” ha affermato che lo Stato maltese sta cercando di far sì che i tre accusati diventino un “esempio” per dissuadere altri dall’intraprendere azioni simili di fronte ai rimpatri verso la Libia.
«La loro detenzione e il loro processo costituiscono una profonda ingiustizia. Invece di essere incriminati, gli El Hiblu 3 dovrebbero essere celebrati per le loro azioni che hanno impedito il ritorno di 100 vite precarie in Libia» si legge nella nota stampa che poi invita il pubblico a chiedere giustizia e a porre fine al processo prima che inizi firmando una petizione disponibile a questo link, in cui si chiede al Procuratore Generale di ritirare le accuse una volta per tutte, sottolineando ancora una volta che “resistere” ai rimpatri illegali in Libia non è un crimine.
A questo proposito, hanno riportato ancora una volta all’attenzione del pubblico le dichiarazioni che rilasciò Amara, il più giovane dei tre accusati:
«Quando finalmente abbiamo avuto l’opportunità di fuggire dai trattamenti disumani subiti in Libia, non potevamo permetterci di tornare in un luogo dove le nostre libertà e la nostra sicurezza non erano più garantite e venire a Malta era l’unica opzione che avevamo per salvarci la vita. Per difendere le nostre vite, abbiamo resistito protestando e io, insieme ad altre due persone, abbiamo fatto da traduttori perché avevamo una conoscenza di base dell’inglese. Non abbiamo agito con cattive intenzioni e non abbiamo intenzione di rappresentare una minaccia o un pericolo per la popolazione di Malta».