A Malta, come tutti sanno, non manca il lavoro, anzi. Di lavoro ce n’è tanto. Quelli che mancano sono i lavoratori. 12.500 nel 2018. E probabilmente almeno 2000 posti resteranno comunque vacanti, non importa quanti sforzi facciano Governo e realtà imprenditoriali.
Le carenze si registrano soprattutto nel settore edile, nella manifattura e nel comparto finanziario. Il Governo deve correre ai ripari anche per quel che riguarda il pubblico impiego.
Mancano infermieri, ed è partita una campagna acquisti in India. Gli autisti degli autobus si cercano in Pakistan. La manodopera per l’edilizia viene importata dalla Serbia. È per quello che la chiamano globalizzazione.
Proprio ieri la Presidente della Malta Employers Association (l’associazione degli imprenditori), Dolores Sammut Bonnici, commentava la situazione chiedendo però che fossero scongiurate misure populiste quali, per esempio, l’innalzamento della paga oraria. Tali benefici, ha sottolineato, non dovrebbero dipendere da congiunture economiche, ma solo dalla produttività, altrimenti l’industria maltese ne perderebbe in competitività.
Solo mettendosi a testa sotto, e osservando la realtà dal Paese di Sottosopra, le cose acquistano un senso.
La formidabile crescita economica maltese sta impoverendo la nazione. La impoverisce di risorse naturali, sacrificate allo sviluppo incontrollato del settore edilizio. La impoverisce di risorse umane, con ritmi lavorativi inusuali per Malta, che portano alla disarticolazione delle famiglie, con mariti e mogli perennemente in corsa per fare più soldi per pagare più affitto, per comprare più merci di bassa qualità importate dalla Cina.
«Non si possono alzare gli stipendi perché altrimenti non si è più competitivi». Ma allora a cosa serve la crescita economica?