In settimana è arrivata la decisione della Corte d’Appello di Milano che, di fatto, ha ribaltato la sentenza di primo grado emessa sull’operazione “Krimisa due” condotta dai carabinieri del Nucleo investigativo meneghino di via Moscova e che aveva inferto un duro colpo alla “locale” ‘ndranghetista di Legnano-Lonate Pozzolo guidata da Vincenzo Rispoli e legata al clan dei Farao-Marincola.
Questa maxi-indagine condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia ha condotto all’arresto di 11 persone risultate legate alla cosca lombarda e ritenute responsabili, a vario titolo, di azioni illecite con “stampo mafioso”.
Si è rivelato particolarmente amaro il verdetto per Francesca Rispoli, figlia del boss di Legnano e Lonato Pozzolo, Vincenzo Rispoli, che ha visto lievitare le pene a suo carico in ottemperanza del ricorso presentato dal PM Alessandra Cerretti e della Procura sull’episodio avvenuto nel gennaio 2020 che vide la donna coinvolta, insieme ad altre tre persone, in quello che viene definito dalla Corte come un pestaggio mafioso finalizzato all’estorsione.
Infatti, sebbene durante il primo grado l’accusa era stata riqualificata in esercizio arbitrario delle proprie ragioni, settimana scorsa è arrivato il dietrofront della Corte che ha portato alla formulazione della richiesta di quattro anni e cinque mesi di reclusione per Francesca Rispoli, otto anni ciascuno ai fratelli affiliati alla cosca ‘ndranghetista Michele e Giuseppe Di Novara, e dieci anni e otto mesi a Giovanni Lillo, marito della Rispoli, identificato come l’esecutore della brutale aggressione ai danni dell’imprenditore italiano Giovanni D’Alessandro, da anni residente a Marsascala.
A seguito del pestaggio D’Alessandro fu trasportato all’ospedale Mater Dei con il referto medico che riportava ferite da trauma, perdita di più denti, abrasioni alla schiena, ematoma al lato sinistro del capo, frattura della dodicesima costola, sospetta frattura composta della decima costola ed un leggero pneumotorace al lato sinistro.
«L’abbiamo picchiato per mezz’ora in una via buia. Gli ho rotto tutto e gli ho preso le chiavi, il telefono ed il marsupio. Ma lui non ha nemmeno una lira», affermava Giuseppe Di Novara nel corso della lunga chiamata effettuata per informare riguardo l’esito del pestaggio la nipote “Chicca”, ovvero Francesca Rispoli, ritenuta dagli inquirenti come la mente dietro all’operazione che ha condotto al pestaggio dell’uomo.
Il movente che ha portato i quattro a compiere il gesto era finalizzato a costringere l’imprenditore brianzolo a versare tremila euro per alcune prestazioni in nero svolte all’interno dei suoi cantieri edili tra novembre 2019 e gennaio 2020.
Proprio le intercettazioni telefoniche raccolte dalla Procura antimafia hanno mostrato come gli imputati si vantassero di aver brutalmente malmenato la vittima e, grazie alle intercettazioni dei militari coordinati dal colonnello Antonio Coppola e dal tenente colonnello Cataldo Pantaleo, si è inoltre evidenziato come proprio la Rispoli approvasse ed esaltasse il lavoro dei tre uomini:
«Così saprà che la ‘Ndrangheta esiste ancora»
Oltre a quest’ultima frase che suona come una vera e propria ammissione per gli inquirenti, le numerose prove raccolte in fase investigativa non hanno lasciato alcun dubbio sulla piena riconducibilità della condotta estorsiva nell’interesse della ‘ndrangheta lonatese e cirotana consentendo di confermare, ancora una volta, la piena ed attuale operatività della “Locale Legnano-Lonate Pozzolo”, considerato tra i più potenti della Lombardia.
Secondo le ultime ricostruzioni degli inquirenti il clan parrebbe gestito proprio dalla Rispoli che, in base alle prove raccolte, nell’epoca a cui risalgono i fatti, avrebbe costantemente aggiornato la madre, la zia e, talvolta, anche il padre detenuto tutt’oggi nel carcere di Tolmezzo.