“Sono vittime di tutte le età. Sono vittime di qualsiasi genere. Sono vittime provenienti da tutti gli strati sociali. Sono vittime di tutte le razze e culture diverse.” Questo l’accorato appello rilasciato da Emergency Physicians of Malta, con la dichiarazione allarmante che “le vittime non denunciano per paura delle ripercussioni”.
Dopo il recente omicidio di Chantelle Chetcuti, la giovane madre di due bambine uccisa con almeno cinque coltellate alla testa e al collo, la dichiarazione dell’associazione è ancora più preoccupante: “I casi sono più frequenti, i dati sono purtroppo sottostimati, e soprattutto, i provvedimenti non sono adeguati”.
I medici si sono uniti al coro di altre associazioni locali contro la violenza domestica nel chiedere alle autorità di affrontare fermamente la questione e garantire un quadro giuridico appropriato. Questo dopo che Justin Borg, l’ex compagno e padre dei figli di Chantelle, si è dichiarato non colpevole.
Riconoscendo, da una parte, che sia la Corte Costituzionale maltese che la Corte Europea dei Diritti Umani hanno decretato che chi sconta l’ergastolo ha il diritto di richiedere la libertà vigilata e di sottoporre a revisione la sentenza, dall’altra, tutte le associazioni chiedono a gran voce che i crimini violenti debbano essere trattati con la massima severità.
La società e il sistema giudiziario non possono permettersi di inviare il messaggio, sbagliato, che essere violenti sia un atteggiamento accettabile. Se lo facessero, il tessuto stesso della società civile sarebbe minacciato. Si rischierebbe di degenerare in una giungla in cui la brutalità dei più potenti e la paura dei più vulnerabili diventi norma.
I vulnerabili hanno il diritto fondamentale di sentirsi al sicuro e tale diritto deve essere prioritario rispetto al diritto degli assassini o dei violenti di chiedere clemenza.
I colpevoli dovrebbero ricevere condanne che si addicono ai loro crimini, e inoltre, essere iscritti a programmi che li aiutino a gestire il comportamento violento; bisognerebbe anche rafforzare i servizi di protezione e il modo in cui accedere ad essi.
Insomma, c’è ancora molto su cui lavorare: tra le altre proposte, c’è quella di fornire ai professionisti tra cui agenti di polizia, avvocati, mediatori, magistrati e giudici che incontrano donne in lotta per i loro diritti, una formazione idonea e aggiornata per identificare e affrontare al meglio tali situazioni.